Ho trovato questo articolo, risalente a pochissimi giorni dopo la morte di Michael, mentre cercavo maggiori informazioni sul racconto del concerto a Bucarest '96.
Premesso che la Scicolone mi sta sulle scatole ( per usare un garbato eufemismo) più della figlia, dopo aver letto questo articolo, meglio per lei che non mi capiti mai a tiro perchè minimo uno sputo in un occhio non glielo leva nessuno.
Lei lo ha conosciuto. E adesso che Michael Jackson, il Peter pan della musica pop, è volato in cielo la mattina del 25 giugno scorso per un arresto cardiaco, Maria Scicolone lo ricorda con l’amore con cui si ricorda un figlio: “Si -conferma la sorella di Sofia Loren- ho avuto questo grande onore: conoscere Jackson, ospitarlo a casa mia, a Roma, per una colazione indimenticabile, che mi rimarrà per sempre nel cuore. Come non dimenticherò mai quei suoi occhi bellissimi, intensi. L’aria fragile e lo sguardo triste”.
Dunque, Maria Scicolone e l’eterno ragazzino della musica leggera mondiale, il cantante entrato nel guinness dei primati per aver venduto, grazie all’album Thriller, più di cento milioni di copie, record assoluto e ancora imbattuto. Un incontro durato poco più di tre ore, il loro. Un afflato, più che un incontro: complice il bad world tour di Jackson, cento spettacoli in giro per il mondo, nel 1988, quando all’epoca il cantante stava per compiere trent’anni. Una delle tappe era proprio Roma. Sofia Loren conosceva da anni, Jackson. I loro ranch californiani erano distanti non più di venti minuti d’auto. E spesso Michael e i figli dell’attrice si ritrovavano a trascorrere il tempo insieme.
“Jackson e i miei nipoti erano in effetti molto amici. Cosi, prima che il cantante arrivasse a Roma, mia sorella mi telefonò: ‘ Ascolta Maria, se sei d’accordo ho pensato di invitare Michael a casa tua per un pranzo”. Lo disse con naturalezza e io, con altrettanta naturalezza caddi dalle nuvole. Ero emozionata. ‘Il grande Jackson da me’, dissi tra di me. E per giorni, in quel mese di maggio, non pensai ad altro che ad organizzare l’incontro, preparando i miei piatti migliori, quelli della cucina tipica napoletana, che nostra madre ci aveva insegnato”.
Brividi, dissolvenza. Poi nella memoria della Scicolone affiorano nitidi i dettagli di quella giornata: “L’appuntamento era per le tredici. Puntuali arrivarono in quindici. Si presentarono. Era lo staff al completo di addetti stampa, agenti discografici del cantante. E poi c’era il cuoco thailandese di Jackson, un signore basso di statura, timido e compassato. Mi avvicinai a mia sorella. Le chiesi perché avessero portato un cuoco, visto che avevo impiegato ore e ore nella preparazione delle pietanze: ‘Sai, mi disse Sofia, non è sfiducia ma lui mangia solo frutta, a pranzo. E’ per mantenersi in forma’. Ci rimasi un po’ male, non lo nascondo. Ma la mia attenzione venne assorbita dal fatto che Jackson non fosse con il resto del gruppo: “ Arriverà tra qualche minuto, mi disse uno di loro, che intanto si era accomodato con gli altri sulla terrazza”.
La stella della musica mondiale tardò un’ora, forse trattenuto da impegni improvvisi, forse più semplicemente dopo aver indugiato più del dovuto nella stanza d’albergo. Poi, superato le due del pomeriggio, ecco Jackson: “Ricordo come fosse ieri -si illumina la Scicolone raccontandomi quel momento-Si presentò alla porta di casa, da solo, vestito con un paio di pantaloni neri e una giacca di color rosso con gli alamari, una di quelle indossate nei suoi spettacoli. Sorrise. "Hey, Maria, sono Michael. Piacere di conoscerti. Tua sorella mi ha parlato molto di te”. Risposi in inglese con un altro sorriso e lo pregai di accomodarsi. Esitò ad entrare.. “ Posso chiederti un favore, Maria?’. ‘Certo, Michael, dimmi pure’ E lui, raggiante: “ Vorrei continuare ad andare su e giù per l’ascensore’. ‘Fa pure, dissi spiazzata dalla richiesta’. Il mio era un ascensore a vetri, di quelli antichi, diversi da quelli americani. Salendo e scendendo si sarebbero visti tutti i piani. Michael, nella sua ingenuità, ne era rimasto colpito. Gli lasciai la porta socchiusa e lui per più di venti minuti non fece altro che spingere pulsanti: dal pian terreno al quinto, dal quinto al pianterreno.
Esaurita la curiosità infantile di quell’ascensore, Michael Jackson entrò in casa. Esausto e felice come un bambino. Salutò il gruppo, poi si avvicinò nuovamente alla Scicolone: “Grazie, Maria, vorrei chiederti un’altra cortesia: posso saltare sui materassi? Sofia mi aveva messa al corrente di quest’ aspetto ludico di Michael e non mi stupii più di tanto. Lo accompagnai in camera di mia figlia Elisabetta. E lui iniziò a saltare. Dieci, venti salti, poi guardò sotto il letto. Cercò di infilarsi come fanno i bambini. Ma non ci riuscì e allora riprese a saltare. Sorridendomi. Gli chiesi se volesse andare pure in camera mia e lui esclamo: “Yeah, great”. Si, grande idea’. Nella mia camera lo lasciai saltare solo: si sentiva accolto , a proprio agio, in quella casa qualunque che era la mia .
Intanto mi ero diretta in cucina per gli ultimi tocchi da chef. Ed era entrato anche il cuoco thailandese. Silenzioso, in meno di venti minuti, con un coltellino tagliò ananas, banane, pere, mele disegnando le figure della Walt disney: topolino, minnie, Paperino, Pluto. Opere d’arte perfette, messe in ordine su un grande vassoio. Anche Michael entrò in cucina; diede uno sguardo alle composizioni di frutta, quindi la sua attenzione si concentro su dei piatti a sfondo celeste: “ Sono porcellane di Faenza”, gli dissi con un sorriso. E lui: “ Ah, Florence, wonderful town, Firenze città meravigliosa”. Sorrisi. ‘No, non Firenze, Faenza, lo ripresi come fa una mamma con il figlio. Però tranquillo, Michael, si sbagliano tutti”. Ridemmo insieme. Poi con la pentola in mano gli dissi di avvicinarsi a tavola. In terrazza il mio arrivo venne accolto da un applauso. Mi ringraziavano due volte. Stavano per mangiare finalmente .E poi per una volta non dovevano controllare ogni mossa del genio della musica: c’ero io a tenerlo d’occhio. Per modo di dire perché lo avevo lasciato libero di esprimere ogni suo desiderio.
A tavola Michael si sedette e addentò un pezzo di mela. Proprio mentre io scoprivo le pietanze: spaghetti con le vongole, broccoletti fritti,peperoni in padella, melanzane al sugo, panzerotti napoletani, quelle pizzette fritte che si fanno dalle mie parti. Jackson divenne cupo, per un istante. Guardò la mele, guardò i panzerotti. Rimise la mela nel piatto e chiese il permesso di prendere un panzerotto. Poi, due, poi tre, quattro. E una porzione di spaghetti e un assaggio di broccoletti. Lo osservavo, mentre il vassoio della frutta, pieno, finiva mestamente in cucina. Era felice Michael, in quel momento”. Come se per qualche minuto non fosse più la stella del pop ingabbiata in regole ostili ma un ragazzo normale dell’indiana, lo stato americano in cui era nato.
“Al suo fianco, c’erano mia figlia Elisabetta e mio nipote Carlo junior, il figlio di Sofia. Soprattutto con lui l’intesa era perfetta. Parlavano, anche se Michael non era persona di tante parole, e poi ricordavano la loro infanzia. Mangiavano e ridevano. Alle tre e mezza Carlo propose a Michael di andare nell’altra casa di mia proprietà in fase di allestimento, dove avevo già sistemato la batteria di mia figlia e un pianoforte. Attraversarono la strada furtivi e iniziarono a cantare e a suonare. Dalla terrazza li osservavo. Erano scatenati. Ad un tratto Michael aprì la finestra e si affacciò su Via Nomentana. In pochi secondi fu il caos, il traffico si bloccò. Lo riconobbe il conducente del tram che passava in quel momento,il quale avvisò i passeggeri. Molti scesero e si misero a guardare a testa in su. Si formò in pochi minuti un capannello di persone. Estasiata ancor più che entusiasta, la gente urlava, faceva ciao con la mano,urlava. Lui sorrideva, sempre più felice. Provocava quasi quella gente a venire su, nel palazzo.
Ma intanto, verso le cinque, stava per arrivare il momento delle prove allo stadio Flaminio di Roma, dove Jackson si sarebbe esibito in serata. Concerto al quale ebbi l’onore di partecipare dietro le quinte. Lo staff del cantante andò a prenderlo nell’altra casa. Tra due ali di folla, lo scortò a fatica nella nostra. Lui salì, riprese la giacca, si avvicinò a me commosso: “Grazie Maria ho trascorso una giornata splendida. In casa tua era come se fossi in famiglia”, mi disse. Io d’impeto gli risposi: ‘Grazie a te Michael, sappi che quando vorrai la mia famiglia sarà sempre la tua famiglia e la mia casa sarà sempre aperta”.
Mi prese le mani sorridendo e mi diede un bacio sulla guancia. Indietreggiò salutandomi con la mano e notai in lui una smorfia di tristezza . Cosi mentre l’ascensore inghiottiva la sua figura e Michael Jackson, circondato dai suoi, tornava ad essere Michael Jackson il re della musica, ebbi come l’impressione della fragilità di quel ragazzo. Doveva indossare di nuovo i panni di stella del pop, ma il suo cuore lo stava lasciando li, in casa mia, dove per poco più di tre ore era stato un ragazzo normale. Si , un ragazzo normale. Mentre richiudevo la porta pensavo proprio a questo: Michael si sentiva prigioniero della sua immagine”. Del resto era il cantante più famoso al mondo, una macchina per far soldi. “eppure, precisa la Scicolone, si capiva che avrebbe rinunciato a tutto quel successo per vivere una vita come tutti gli altri, un’infanzia come quella vissuta da tutti. A lui infatti, e me lo raccontava spesso mia sorella, l’infanzia era stata negata. Gliela avevano scippata. A undici anni era già famoso e da quanto so il padre era molto severo con lui. Lo picchiava se non si esibiva alla perfezione. Per tutta la vita Michael quell’infanzia l’ha cercata con tutto se stesso. Per questo sono rimasta sbigottita quando a più riprese venne accusato di pedofilia. Un ragazzo tenero, educato, buono, delicato e generoso come lui non poteva aver molestato degli adolescenti, perché in fondo Jackson era uno di loro. Amava giocarci e li considerava dei coetanei”.
Solo un ragazzo fragile, timido, di poche parole, dunque: tra le mani un giocattolo più grosso di lui. Un giocattolo destabilizzante. Da allora le strade di Jackson e della Scicolone non si sono più rincontrate: “Ma chiedevo sempre a Sofia, che i contatti non li aveva mai persi, come stesse quel ragazzo che si divertiva come un bimbo di sei anni saltando sul materasso del mio letto matrimoniale. Fino a quando giorni fa ho saputo la terribile notizia. Ho telefonato subito a mia sorella. E l’ho sentita piangere. Accorata. Come di rado aveva fatto in vita sua. Tra le lacrime ripeteva: sai Maria, a Lisa marie Presley, la prima moglie, figlia del grande Elvis Presley, l’aveva detto. Me lo sento, io farò la fine di tuo padre: morirò giovane. Giovane”.
Pubblicato il 29 giugno 2009
FONTE: [Devi essere iscritto e connesso per vedere questo link]
Premesso che la Scicolone mi sta sulle scatole ( per usare un garbato eufemismo) più della figlia, dopo aver letto questo articolo, meglio per lei che non mi capiti mai a tiro perchè minimo uno sputo in un occhio non glielo leva nessuno.
Lei lo ha conosciuto. E adesso che Michael Jackson, il Peter pan della musica pop, è volato in cielo la mattina del 25 giugno scorso per un arresto cardiaco, Maria Scicolone lo ricorda con l’amore con cui si ricorda un figlio: “Si -conferma la sorella di Sofia Loren- ho avuto questo grande onore: conoscere Jackson, ospitarlo a casa mia, a Roma, per una colazione indimenticabile, che mi rimarrà per sempre nel cuore. Come non dimenticherò mai quei suoi occhi bellissimi, intensi. L’aria fragile e lo sguardo triste”.
Dunque, Maria Scicolone e l’eterno ragazzino della musica leggera mondiale, il cantante entrato nel guinness dei primati per aver venduto, grazie all’album Thriller, più di cento milioni di copie, record assoluto e ancora imbattuto. Un incontro durato poco più di tre ore, il loro. Un afflato, più che un incontro: complice il bad world tour di Jackson, cento spettacoli in giro per il mondo, nel 1988, quando all’epoca il cantante stava per compiere trent’anni. Una delle tappe era proprio Roma. Sofia Loren conosceva da anni, Jackson. I loro ranch californiani erano distanti non più di venti minuti d’auto. E spesso Michael e i figli dell’attrice si ritrovavano a trascorrere il tempo insieme.
“Jackson e i miei nipoti erano in effetti molto amici. Cosi, prima che il cantante arrivasse a Roma, mia sorella mi telefonò: ‘ Ascolta Maria, se sei d’accordo ho pensato di invitare Michael a casa tua per un pranzo”. Lo disse con naturalezza e io, con altrettanta naturalezza caddi dalle nuvole. Ero emozionata. ‘Il grande Jackson da me’, dissi tra di me. E per giorni, in quel mese di maggio, non pensai ad altro che ad organizzare l’incontro, preparando i miei piatti migliori, quelli della cucina tipica napoletana, che nostra madre ci aveva insegnato”.
Brividi, dissolvenza. Poi nella memoria della Scicolone affiorano nitidi i dettagli di quella giornata: “L’appuntamento era per le tredici. Puntuali arrivarono in quindici. Si presentarono. Era lo staff al completo di addetti stampa, agenti discografici del cantante. E poi c’era il cuoco thailandese di Jackson, un signore basso di statura, timido e compassato. Mi avvicinai a mia sorella. Le chiesi perché avessero portato un cuoco, visto che avevo impiegato ore e ore nella preparazione delle pietanze: ‘Sai, mi disse Sofia, non è sfiducia ma lui mangia solo frutta, a pranzo. E’ per mantenersi in forma’. Ci rimasi un po’ male, non lo nascondo. Ma la mia attenzione venne assorbita dal fatto che Jackson non fosse con il resto del gruppo: “ Arriverà tra qualche minuto, mi disse uno di loro, che intanto si era accomodato con gli altri sulla terrazza”.
La stella della musica mondiale tardò un’ora, forse trattenuto da impegni improvvisi, forse più semplicemente dopo aver indugiato più del dovuto nella stanza d’albergo. Poi, superato le due del pomeriggio, ecco Jackson: “Ricordo come fosse ieri -si illumina la Scicolone raccontandomi quel momento-Si presentò alla porta di casa, da solo, vestito con un paio di pantaloni neri e una giacca di color rosso con gli alamari, una di quelle indossate nei suoi spettacoli. Sorrise. "Hey, Maria, sono Michael. Piacere di conoscerti. Tua sorella mi ha parlato molto di te”. Risposi in inglese con un altro sorriso e lo pregai di accomodarsi. Esitò ad entrare.. “ Posso chiederti un favore, Maria?’. ‘Certo, Michael, dimmi pure’ E lui, raggiante: “ Vorrei continuare ad andare su e giù per l’ascensore’. ‘Fa pure, dissi spiazzata dalla richiesta’. Il mio era un ascensore a vetri, di quelli antichi, diversi da quelli americani. Salendo e scendendo si sarebbero visti tutti i piani. Michael, nella sua ingenuità, ne era rimasto colpito. Gli lasciai la porta socchiusa e lui per più di venti minuti non fece altro che spingere pulsanti: dal pian terreno al quinto, dal quinto al pianterreno.
Esaurita la curiosità infantile di quell’ascensore, Michael Jackson entrò in casa. Esausto e felice come un bambino. Salutò il gruppo, poi si avvicinò nuovamente alla Scicolone: “Grazie, Maria, vorrei chiederti un’altra cortesia: posso saltare sui materassi? Sofia mi aveva messa al corrente di quest’ aspetto ludico di Michael e non mi stupii più di tanto. Lo accompagnai in camera di mia figlia Elisabetta. E lui iniziò a saltare. Dieci, venti salti, poi guardò sotto il letto. Cercò di infilarsi come fanno i bambini. Ma non ci riuscì e allora riprese a saltare. Sorridendomi. Gli chiesi se volesse andare pure in camera mia e lui esclamo: “Yeah, great”. Si, grande idea’. Nella mia camera lo lasciai saltare solo: si sentiva accolto , a proprio agio, in quella casa qualunque che era la mia .
Intanto mi ero diretta in cucina per gli ultimi tocchi da chef. Ed era entrato anche il cuoco thailandese. Silenzioso, in meno di venti minuti, con un coltellino tagliò ananas, banane, pere, mele disegnando le figure della Walt disney: topolino, minnie, Paperino, Pluto. Opere d’arte perfette, messe in ordine su un grande vassoio. Anche Michael entrò in cucina; diede uno sguardo alle composizioni di frutta, quindi la sua attenzione si concentro su dei piatti a sfondo celeste: “ Sono porcellane di Faenza”, gli dissi con un sorriso. E lui: “ Ah, Florence, wonderful town, Firenze città meravigliosa”. Sorrisi. ‘No, non Firenze, Faenza, lo ripresi come fa una mamma con il figlio. Però tranquillo, Michael, si sbagliano tutti”. Ridemmo insieme. Poi con la pentola in mano gli dissi di avvicinarsi a tavola. In terrazza il mio arrivo venne accolto da un applauso. Mi ringraziavano due volte. Stavano per mangiare finalmente .E poi per una volta non dovevano controllare ogni mossa del genio della musica: c’ero io a tenerlo d’occhio. Per modo di dire perché lo avevo lasciato libero di esprimere ogni suo desiderio.
A tavola Michael si sedette e addentò un pezzo di mela. Proprio mentre io scoprivo le pietanze: spaghetti con le vongole, broccoletti fritti,peperoni in padella, melanzane al sugo, panzerotti napoletani, quelle pizzette fritte che si fanno dalle mie parti. Jackson divenne cupo, per un istante. Guardò la mele, guardò i panzerotti. Rimise la mela nel piatto e chiese il permesso di prendere un panzerotto. Poi, due, poi tre, quattro. E una porzione di spaghetti e un assaggio di broccoletti. Lo osservavo, mentre il vassoio della frutta, pieno, finiva mestamente in cucina. Era felice Michael, in quel momento”. Come se per qualche minuto non fosse più la stella del pop ingabbiata in regole ostili ma un ragazzo normale dell’indiana, lo stato americano in cui era nato.
“Al suo fianco, c’erano mia figlia Elisabetta e mio nipote Carlo junior, il figlio di Sofia. Soprattutto con lui l’intesa era perfetta. Parlavano, anche se Michael non era persona di tante parole, e poi ricordavano la loro infanzia. Mangiavano e ridevano. Alle tre e mezza Carlo propose a Michael di andare nell’altra casa di mia proprietà in fase di allestimento, dove avevo già sistemato la batteria di mia figlia e un pianoforte. Attraversarono la strada furtivi e iniziarono a cantare e a suonare. Dalla terrazza li osservavo. Erano scatenati. Ad un tratto Michael aprì la finestra e si affacciò su Via Nomentana. In pochi secondi fu il caos, il traffico si bloccò. Lo riconobbe il conducente del tram che passava in quel momento,il quale avvisò i passeggeri. Molti scesero e si misero a guardare a testa in su. Si formò in pochi minuti un capannello di persone. Estasiata ancor più che entusiasta, la gente urlava, faceva ciao con la mano,urlava. Lui sorrideva, sempre più felice. Provocava quasi quella gente a venire su, nel palazzo.
Ma intanto, verso le cinque, stava per arrivare il momento delle prove allo stadio Flaminio di Roma, dove Jackson si sarebbe esibito in serata. Concerto al quale ebbi l’onore di partecipare dietro le quinte. Lo staff del cantante andò a prenderlo nell’altra casa. Tra due ali di folla, lo scortò a fatica nella nostra. Lui salì, riprese la giacca, si avvicinò a me commosso: “Grazie Maria ho trascorso una giornata splendida. In casa tua era come se fossi in famiglia”, mi disse. Io d’impeto gli risposi: ‘Grazie a te Michael, sappi che quando vorrai la mia famiglia sarà sempre la tua famiglia e la mia casa sarà sempre aperta”.
Mi prese le mani sorridendo e mi diede un bacio sulla guancia. Indietreggiò salutandomi con la mano e notai in lui una smorfia di tristezza . Cosi mentre l’ascensore inghiottiva la sua figura e Michael Jackson, circondato dai suoi, tornava ad essere Michael Jackson il re della musica, ebbi come l’impressione della fragilità di quel ragazzo. Doveva indossare di nuovo i panni di stella del pop, ma il suo cuore lo stava lasciando li, in casa mia, dove per poco più di tre ore era stato un ragazzo normale. Si , un ragazzo normale. Mentre richiudevo la porta pensavo proprio a questo: Michael si sentiva prigioniero della sua immagine”. Del resto era il cantante più famoso al mondo, una macchina per far soldi. “eppure, precisa la Scicolone, si capiva che avrebbe rinunciato a tutto quel successo per vivere una vita come tutti gli altri, un’infanzia come quella vissuta da tutti. A lui infatti, e me lo raccontava spesso mia sorella, l’infanzia era stata negata. Gliela avevano scippata. A undici anni era già famoso e da quanto so il padre era molto severo con lui. Lo picchiava se non si esibiva alla perfezione. Per tutta la vita Michael quell’infanzia l’ha cercata con tutto se stesso. Per questo sono rimasta sbigottita quando a più riprese venne accusato di pedofilia. Un ragazzo tenero, educato, buono, delicato e generoso come lui non poteva aver molestato degli adolescenti, perché in fondo Jackson era uno di loro. Amava giocarci e li considerava dei coetanei”.
Solo un ragazzo fragile, timido, di poche parole, dunque: tra le mani un giocattolo più grosso di lui. Un giocattolo destabilizzante. Da allora le strade di Jackson e della Scicolone non si sono più rincontrate: “Ma chiedevo sempre a Sofia, che i contatti non li aveva mai persi, come stesse quel ragazzo che si divertiva come un bimbo di sei anni saltando sul materasso del mio letto matrimoniale. Fino a quando giorni fa ho saputo la terribile notizia. Ho telefonato subito a mia sorella. E l’ho sentita piangere. Accorata. Come di rado aveva fatto in vita sua. Tra le lacrime ripeteva: sai Maria, a Lisa marie Presley, la prima moglie, figlia del grande Elvis Presley, l’aveva detto. Me lo sento, io farò la fine di tuo padre: morirò giovane. Giovane”.
Pubblicato il 29 giugno 2009
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