Intervista a Kenny Ortega
Intervista di Francesca Scorcucchi (Vanity Fair)
“Eravamo in teatro, allo Staples Center, qui a Los Angeles. Avevamo fatto una prova con lui la sera prima e stavamo aspettando che tornasse, per proseguire nel pomeriggio. Poi è arrivata la telefonata”. Ha la voce sinceramente rotta dall’emozione Kenny Ortega, il regista di This is it, quando racconta a Vanity Fair il momento in cui capì che Michael Jackson, su quel palco, non sarebbe risalito più. “Ci avvertirono che c’era stato un incidente. Uno dei nostri produttori raggiunse l’ospedale, noi restammo in teatro in attesa di notizie. Tutti insieme: ballerini, cantanti, band, tecnici. L’ intera “famiglia creativa” di Michael, in ansia per lui. Poi arrivò la seconda, terribile telefonata…”.
Sono al telefono con Kenny Ortega, non posso vedere il suo volto, ma dalla durata della pausa intuisco che l’emozione ha avuto il sopravvento. Quando riprende il discorso, le sue parole me lo confermano. “Deve scusarmi ma ho molta difficoltà a ritornare con la mente a quel momento”.
Era il 25 giugno. Michael Jackson era stato stroncato da un’iniezione di anestetico. Non era la prima volta che ne faceva uso. Quella volta, però, il suo cuore non aveva retto. Ed è solo una coincidenza, una coincidenza inquietante però, che a distanza di una settimana arrivino nelle sale italiane gli ultimi film di due artisti – Michael appunto, ma anche Heath Ledger – uccisi entrambi da farmaci che dovrebbero servire a stare meglio.
This is it, in effetti, è un film che non avrebbe dovuto esistere. Il titolo è quello dei 50 concerti, l’ultima tourneè (This is it, cioè “questo è quanto”, “punto e basta”), che Michael avrebbe dovuto tenere a Londra tra luglio e marzo. La tourneè non c’è mai stata, ma sono rimaste le registrazioni dei giorni delle prove, e sono quelli che il film racconta. Uscirà il 28 ottobre, in contemporanea in molti Paesi del mondo, Italia compresa, all’indomani dell’omonimo doppio album di successi (in pratica la colonna sonora del film: i grandi classici, alcuni in una nuova versione, più la poesia “Earth Planet”), già lanciato dall’omonimo singolo inedito. A Los Angeles i fans si sono accampati per giorni pur di entrare in possesso dei biglietti dell’anteprima.
Ortega, 59 anni, coreografo e regista diventato famoso grazie ai tre “High School Musical”, è felice di mostrare al pubblico il Michael Jackson che ha conosciuto in anni di collaborazione artistica. “Ho voluto condividere con il pubblico il “parto” del progetto da aprile a giugno. Non è il film su un concerto, anche se Michael si esibisce in numerosi pezzi e balletti: è qualcosa di più intimo. E di raro, perché Michael ha sempre voluto registrare le sue prove, testimoniare il processo creativo, ma è la prima volta che lo si vede alle prese con tutte le fasi: le riunioni, le prove, gli scambi di opinione. “This is it” mostra il genio di Michael Jackson al lavoro”.
Eravate amici?
“Amici ‘professionali’. Conducevamo vite separate, ma il rapporto creativo era fortissimo. Non ho mai rinunciato all’opportunità di lavorare con lui, qualsiasi cosa stessi facendo. Ogni volta che mi chiamava trovavo il modo di mollare tutto e correre da lui. Era sempre un’avventura nuova”.
Aveva notato qualche malessere negli ultimi tempi?
“Al contrario: Michael era davvero felice di tornare sul palco dopo un periodo tanto buio della sua carriera e della sua vita. E ci voleva tornare con tutte le sue forze. Per i suoi figli, per far vedere loro, ora che erano più grandi e in grado di apprezzare il suo lavoro e la sua passione, di che cosa era capace il loro papà. Per i suoi fan, che erano rimasti leali anche nei momenti più tragici. E per riprendere quel messaggio di solidarietà che aveva voluto lanciare con canzoni come “Heal The World”. Aveva ancora molto da dire Michael Jackson. Stava facendo i primi timidi passi avanti dopo un periodo difficile, stava cercando di ricostruire se stesso, la sua forza fisica, la sua forza vocale, ma non voleva farlo da solo, aveva bisogno del suo pubblico. Non parlerei di malessere. Era tornato a fare la cosa che lo appassionava di più”.
Ricominciare, però, non è mai facile. Non mostrava segni di paura, di cedimento?
“Se quei cenni c’erano, non erano solo suoi. Tutti noi temevamo che non saremmo stati in grado di realizzare il progetto, che non saremmo stati ‘fisicamente’ capaci di fare quello che c’era nella nostra testa. Ma per Michael la sfida era così importante che era lui, con il suo cuore e la sua mente, a trascinarci. Era l’architetto, noi i suoi manovali”.
Eppure si disse che fosse stato costretto a fare quei concerti dalla famiglia, per questioni di soldi.
“Rispondo solo dicendo che, fosse stato per Michael, non ci sarebbe stata solo Londra. Voleva programmare un tour mondiale subito dopo quei primi 50 concerti: era il suo sogno. Aveva molta speranza nel futuro”.
Lei conosceva la famiglia?
“Conoscevo i figli di Michael, che venivano spesso alle prove. Bambini educati, normali, molto legati al padre. Gli altri familiari li ho conosciuti solo dopo la sua morte, quando ho lavorato all’organizzazione della cerimonia in sua memoria, qui a Los Angeles, proprio allo Staples Center”.
C’è un aspetto di Michael Jackson che secondo lei è poco conosciuto, e che vorrebbe condividere col pubblico?
“Persino i fan sanno poco o niente della sua generosità. Quasi nessuno sa che Michael detiene un record importante: è in assoluto il privato che più ha contribuito ad opere di beneficenza. Nel corso della sua carriera ha donato 300 milioni di dollari ad organizzazioni di charity. Voleva fare concretamente qualcosa perché questo mondo fosse un posto migliore, ma non è stato questo suo aspetto ad attirare l’attenzione dei media”.
Che invece si sono tuffati sul processo per molestie, poi finito con un’assoluzione.
“Meritava di uscire a testa alta da quella vicenda”.
Era così ingenuo come lo descrivono?
“Era una meravigliosa armonia di innocenza e genialità. C’era certamente in lui uno spirito fanciullesco, e quel bambino non è stato mai soffocato dalle durezze della vita. Era questa, artisticamente, la sua magia”.
Mi regala tre aggettivi per descrivere Michael Jackson?
“Straordinario, esuberante, generoso. In nessun altro essere umano ho riconosciuto un cuore come il suo (la voce si incrina di nuovo, ndr). Mi scusi ancora, ma è davvero difficile. Ho appena finito di mettere insieme il film, e ogni ricordo mi fa male”.
Questa intervista risale al 2009
Intervista di Francesca Scorcucchi (Vanity Fair)
“Eravamo in teatro, allo Staples Center, qui a Los Angeles. Avevamo fatto una prova con lui la sera prima e stavamo aspettando che tornasse, per proseguire nel pomeriggio. Poi è arrivata la telefonata”. Ha la voce sinceramente rotta dall’emozione Kenny Ortega, il regista di This is it, quando racconta a Vanity Fair il momento in cui capì che Michael Jackson, su quel palco, non sarebbe risalito più. “Ci avvertirono che c’era stato un incidente. Uno dei nostri produttori raggiunse l’ospedale, noi restammo in teatro in attesa di notizie. Tutti insieme: ballerini, cantanti, band, tecnici. L’ intera “famiglia creativa” di Michael, in ansia per lui. Poi arrivò la seconda, terribile telefonata…”.
Sono al telefono con Kenny Ortega, non posso vedere il suo volto, ma dalla durata della pausa intuisco che l’emozione ha avuto il sopravvento. Quando riprende il discorso, le sue parole me lo confermano. “Deve scusarmi ma ho molta difficoltà a ritornare con la mente a quel momento”.
Era il 25 giugno. Michael Jackson era stato stroncato da un’iniezione di anestetico. Non era la prima volta che ne faceva uso. Quella volta, però, il suo cuore non aveva retto. Ed è solo una coincidenza, una coincidenza inquietante però, che a distanza di una settimana arrivino nelle sale italiane gli ultimi film di due artisti – Michael appunto, ma anche Heath Ledger – uccisi entrambi da farmaci che dovrebbero servire a stare meglio.
This is it, in effetti, è un film che non avrebbe dovuto esistere. Il titolo è quello dei 50 concerti, l’ultima tourneè (This is it, cioè “questo è quanto”, “punto e basta”), che Michael avrebbe dovuto tenere a Londra tra luglio e marzo. La tourneè non c’è mai stata, ma sono rimaste le registrazioni dei giorni delle prove, e sono quelli che il film racconta. Uscirà il 28 ottobre, in contemporanea in molti Paesi del mondo, Italia compresa, all’indomani dell’omonimo doppio album di successi (in pratica la colonna sonora del film: i grandi classici, alcuni in una nuova versione, più la poesia “Earth Planet”), già lanciato dall’omonimo singolo inedito. A Los Angeles i fans si sono accampati per giorni pur di entrare in possesso dei biglietti dell’anteprima.
Ortega, 59 anni, coreografo e regista diventato famoso grazie ai tre “High School Musical”, è felice di mostrare al pubblico il Michael Jackson che ha conosciuto in anni di collaborazione artistica. “Ho voluto condividere con il pubblico il “parto” del progetto da aprile a giugno. Non è il film su un concerto, anche se Michael si esibisce in numerosi pezzi e balletti: è qualcosa di più intimo. E di raro, perché Michael ha sempre voluto registrare le sue prove, testimoniare il processo creativo, ma è la prima volta che lo si vede alle prese con tutte le fasi: le riunioni, le prove, gli scambi di opinione. “This is it” mostra il genio di Michael Jackson al lavoro”.
Eravate amici?
“Amici ‘professionali’. Conducevamo vite separate, ma il rapporto creativo era fortissimo. Non ho mai rinunciato all’opportunità di lavorare con lui, qualsiasi cosa stessi facendo. Ogni volta che mi chiamava trovavo il modo di mollare tutto e correre da lui. Era sempre un’avventura nuova”.
Aveva notato qualche malessere negli ultimi tempi?
“Al contrario: Michael era davvero felice di tornare sul palco dopo un periodo tanto buio della sua carriera e della sua vita. E ci voleva tornare con tutte le sue forze. Per i suoi figli, per far vedere loro, ora che erano più grandi e in grado di apprezzare il suo lavoro e la sua passione, di che cosa era capace il loro papà. Per i suoi fan, che erano rimasti leali anche nei momenti più tragici. E per riprendere quel messaggio di solidarietà che aveva voluto lanciare con canzoni come “Heal The World”. Aveva ancora molto da dire Michael Jackson. Stava facendo i primi timidi passi avanti dopo un periodo difficile, stava cercando di ricostruire se stesso, la sua forza fisica, la sua forza vocale, ma non voleva farlo da solo, aveva bisogno del suo pubblico. Non parlerei di malessere. Era tornato a fare la cosa che lo appassionava di più”.
Ricominciare, però, non è mai facile. Non mostrava segni di paura, di cedimento?
“Se quei cenni c’erano, non erano solo suoi. Tutti noi temevamo che non saremmo stati in grado di realizzare il progetto, che non saremmo stati ‘fisicamente’ capaci di fare quello che c’era nella nostra testa. Ma per Michael la sfida era così importante che era lui, con il suo cuore e la sua mente, a trascinarci. Era l’architetto, noi i suoi manovali”.
Eppure si disse che fosse stato costretto a fare quei concerti dalla famiglia, per questioni di soldi.
“Rispondo solo dicendo che, fosse stato per Michael, non ci sarebbe stata solo Londra. Voleva programmare un tour mondiale subito dopo quei primi 50 concerti: era il suo sogno. Aveva molta speranza nel futuro”.
Lei conosceva la famiglia?
“Conoscevo i figli di Michael, che venivano spesso alle prove. Bambini educati, normali, molto legati al padre. Gli altri familiari li ho conosciuti solo dopo la sua morte, quando ho lavorato all’organizzazione della cerimonia in sua memoria, qui a Los Angeles, proprio allo Staples Center”.
C’è un aspetto di Michael Jackson che secondo lei è poco conosciuto, e che vorrebbe condividere col pubblico?
“Persino i fan sanno poco o niente della sua generosità. Quasi nessuno sa che Michael detiene un record importante: è in assoluto il privato che più ha contribuito ad opere di beneficenza. Nel corso della sua carriera ha donato 300 milioni di dollari ad organizzazioni di charity. Voleva fare concretamente qualcosa perché questo mondo fosse un posto migliore, ma non è stato questo suo aspetto ad attirare l’attenzione dei media”.
Che invece si sono tuffati sul processo per molestie, poi finito con un’assoluzione.
“Meritava di uscire a testa alta da quella vicenda”.
Era così ingenuo come lo descrivono?
“Era una meravigliosa armonia di innocenza e genialità. C’era certamente in lui uno spirito fanciullesco, e quel bambino non è stato mai soffocato dalle durezze della vita. Era questa, artisticamente, la sua magia”.
Mi regala tre aggettivi per descrivere Michael Jackson?
“Straordinario, esuberante, generoso. In nessun altro essere umano ho riconosciuto un cuore come il suo (la voce si incrina di nuovo, ndr). Mi scusi ancora, ma è davvero difficile. Ho appena finito di mettere insieme il film, e ogni ricordo mi fa male”.
Questa intervista risale al 2009
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